Studio di Psicologia e Psicoterapia "Ecotono"

- Dr. Andrea Bramucci

LA PSICOLOGIA GIURIDICA E IL CONCETTO DI VERITA’

Il Diritto e la Psicologia sono due discipline che hanno come oggetto di interesse l’essere umano e le sue manifestazioni .

“Sia il diritto che la psicologia si occupano prevalentemente del comportamento umano: l’uno, tra l’altro, per indicare ciò che è vietato e ciò che è lecito e per indicare al Giudice elementi di diagnosi al fine di precisare le responsabilità individuali, l’altra anche per spiegare la motivazione del comportamento e dei conflitti umani e per diagnosticarli in relazione a differenti variabili” (1)

Ma lo stesso autore ci tiene subito a precisare che il diritto è autoreferenziale, è un prodotto dell’uomo: “le norme e le regole che egli si pone si autogiustificano”; per la psicologia lo sforzo è proprio orientato a cercare le regole che governano il comportamento umano – certamente il quadro è molto più complesso in relazione ai dinamismi interni del soggetto e ai vissuti sia consci che inconsci.

In maniera scontata e perfino banale si può dire che diritto e psicologia definiscono modalità diverse di leggere la realtà: nel campo penale, per esempio, il “fatto-reato” del diritto diventa “l’agito” in psicologia, e ancora se per il giudice è necessario e forse indispensabile conoscere le ragioni o gli accadimenti che hanno portato appunto al “reato”, lo psicologo andrà a sondare il “vissuto” e la storia del soggetto oltre alle motivazioni inconsce e a tutti i meccanismi che hanno poi prodotto quel particolare “agito”.

Il fine del Diritto e dei suoi operatori (giudici, magistrati, avvocati, ecc.) è “tendenzialmente”, perlomeno nel suo “ideale”, la affermazione delle norme che regolano l’azione dell’uomo nella vita sociale e che sono imposte dall’autorità dello Stato – in quel particolare periodo storico – per garantire i singoli individui e la collettività nel raggiungimento dei loro fini e il ripristino della situazione di “giustizia” che era stato precedentemente alterato.

Il procedimento sia in ambito civile che penale porta ad un esito di giudizio (sentenza, decreto, ecc) attraverso vari strumenti e mezzi di prova tendenti ad accertare “il fatto”, “il colpevole”, “la vittima”, ecc. e che si basano su elementi riscontrabili o in qualche modo verosimili: “lo scopo del processo penale è quello di fornire una ricostruzione immediatamente comprensibile, plausibile e coerente del fatto oggetto del giudizio e delle circostanze che lo hanno accompagnato” (2)

L’operatore giuridico si muove attraverso l’applicazione delle Leggi contenute nei Codici che formano degli argini ben precisi al proprio agire (pur nel caos dell’attuale periodo storico!).

La definizione di Psicologia pone subito un problema epistemologico: di quale approccio psicologico stiamo parlando? Se il Diritto si esprime attraverso leggi e norme precise, senza entrare nel merito delle interpretazioni, che sono l’espressione delle mediazioni tra i diversi interessi economico-politici e morali dello Stato in quel particolare momento storico, le “psicologie” esprimono i diversi “depositi” culturali e scientifici che si sono succeduti nel tempo, con intersecazioni, accumulazioni di sapere o spiegazioni opposte, sovrapposizioni, ricerca di conferme e falsificazioni successive e con apporti dalla filosofia, dalla psichiatria e da altre scienze umane.

Quindi se è facile ritrovare nei diversi testi psicologici definizioni dei diversi modelli: comportamentista, psicoanalitico, fenomenologico, genetico, cognitivista, ed altri, è senz’altro più problematico “raccogliere” in un unico “set” di items congruenti al loro interno, un’unica immagine dell’approccio psicologico.

Un tentativo di definizione di Psicologia ci indica che: la psicologia rientra nell’ambito delle discipline a valenza descrittivo-esplicativa e studia l’attività psichica della persona e il comportamento da essa derivante per comprendere la natura e i meccanismi dei diversi processi interni: intellettuali, affettivi, emotivi, inconsci e scoprire i motivi e le regole che li strutturano (3).

In sintesi la Psicologia “studia: l’attività psichica, il comportamento e la personalità degli esseri viventi” (umani!) (4) e se l’obiettivo è anche qui quello di giungere a delle costanti a delle “leggi” come per tutte le scienze e le discipline, il modo di procedere è opposto a quello del Diritto.

La modalità pragmatica del Diritto parte dall’esterno, cioè dal porre norme e leggi uguali per tutti uomini e donne, norme che da “un lato rappresentano il frutto di un compromesso tra diverse tendenze ideologiche e politiche” e che sono astratte per “coprire il maggior numero di fattispecie concrete” (5) per poi giungere alla applicazione concreta in un singolo caso con un metodo più di tipo deduttivo. La Psicologia, al contrario, parte dallo studiare le caratteristiche del soggetto nella sua originalità e unicità per giungere ad aspetti condivisi con l’altro e con la società, con un metodo più di tipo induttivo

Anche a livello mitologico si coglie una profonda differenza nelle “emozioni” e nei “significati” di fondo che informano le due “costellazioni” di simboli.

Da un lato c’è Temi, la dea della Legge che appartiene alla stirpe dei Titani, moglie e consigliera di Zeus, che con lui generò molti figli tra cui le tre Ore: Disciplina, Giustizia e Pace: queste figure evocano ordine, staticità e rappresentazione del potere.

Dall’altro Psiche, ragazza bellissima, leggera, spesso rappresentata da una bambina alata come una farfalla, viene trasportata dal Vento e solo Eros ha il coraggio di unirsi a lei; la sua curiosità la porta a dover attraversare traversie e passaggi di “individuazione”, e alla fine riesce a riconciliarsi con gli dei: inafferrabilità, velamento e disvelamento sono alcuni dei significati che questa figura rimanda.

Le due discipline hanno, dunque, punti di vista e di osservazione diversa rispetto alla realtà e circoscrivono, quindi, “paradigmi” con regole e norme interne che in alcune situazioni possono addirittura essere opposte.

Diritto e Psicologia, o meglio l’applicazione che ne effettuano i reciproci operatori delle due discipline, entrano a volte in competizione e anche in conflitto in relazione sia al significato e agli effetti di una applicazione sic et simpliciter della Legge o invece modulata e “ammorbidita” dalle interpretazioni psicologiche: “il legislatore teme che lo psicologo, occupandosi di parecchie aree che sono di competenza anche del giudice penale, affiancandosi a lui nel giudizio possa alla fine vanificare la pretesa punitiva dello Stato”  (6) e d’altronde questa preoccupazione si manifesta concretamente nell’utilizzo manipolativo e scorretto delle categorie psicologiche e psichiatriche, per esempio attraverso il ricorso a perizie di infermità o semi-infermità mentale in evidenti situazioni con ben altre caratteristiche!

Come è possibile l’incontro e la collaborazione tra diritto e psicologia? Dove le due discipline formano un comune campo?

Nonostante le differenze di impostazione e di finalità delle due pratiche, quella giuridica e quella psicologica, entrambe, come già scritto sopra, si occupano del comportamento umano: il Diritto sancisce delle norme che poi nella loro applicazione implicano aspetti psicologici dei soggetti coinvolti da cui non si può prescindere.

“La psicologia e il diritto hanno una stessa finalità: scoprire la verità sugli eventi del mondo reale” (7).

La Psicologia Giuridica ha come suo progetto interno quello di intersecare i due diversi approcci per mettere a disposizione del Diritto le conoscenze della Psicologia, che a loro volta devono essere applicate al contesto giuridico tenendo conto delle “regole” e del tipo di “mandato istituzionale” che il sistema giudiziario è chiamato a rispondere.

La storia della Psicologia Giuridica in Italia ci testimonia il lungo, faticoso e difficile lavoro di ricerca e sperimentazione, che ha portato al costituirsi di questo nuovo paradigma scientifico.

LA PSICOLOGIA GIURIDICA: un breve inquadramento, il ruolo dello psicologo forense.

 

La Psicologia Giuridica in Italia ha mosso i suoi primi passi molto tempo fa. Già nel 1909 Fiore pubblicava il Manuale di psicologia giudiziaria, poi nel 1925 Altavilla pubblicava La Psicologia Giudiziaria e la materia “ebbe una vera sistematizzazione”. (8)

Si colse subito che le, allora, “nuove” scienze psicologiche e psicoanalitiche potevano dare un forte contributo nella specificazione di termini e categorie di cui il Diritto era ed è pieno: personalità, dolo, colpa, intenzionalità, comportamento del buon padre di famiglia, termini poco “scientifici” e specificati, a metà tra il senso comune e la morale.

Ma dopo un periodo di espansione, anche grazie al contributo di Musatti del 1931, la Psicologia Giuridica subì un arresto; l’ingresso della psicoanalisi andò a “scontrarsi con le acquisizioni concettuali antecedenti, con i lombrosiani e i filosofi idealisti fortemente critici e schierati contro la psicoanalisi. Ma anche i giuristi tendevano a quel punto a non accettare più le teorie psicologiche, anche in considerazione del fatto che l’impostazione dogmatica della dottrina giuridica stava prevalendo definitivamente sulle concezioni della scuola positiva che trascinò nell’ostracismo anche la psicologia giuridica”. (9)

Attualmente la psicologia giuridica è riconosciuta sia in ambito forense che psicologico grazie alla ripresa delle esperienze e degli studi; “con l’impulso di autori e studiosi come Gaetano De Leo, Luisella De Cataldo, Guglielmo Gulotta” a partire dalla fine degli anni ’70. La Psicologia Giuridica si articolò in diversi settori: lo studio del profilo psicologico di un autore di reato (vedi il “criminal profiling” oggi tanto in voga) ed altri aspetti – studio della devianza minorile, della criminalità, ecc – definiscono l’area di interesse della psicologia criminale.

La psicologia giudiziaria che “studia la personalità dell’individuo in quanto imputato, nonché le persone che partecipano al processo …la vittimologia e la psicologia della testimonianza”.

La psicologia penitenziaria, “che esamina i problemi psicologici relativi alla detenzione, attraverso attività di osservazione, sostegno e trattamento del condannato”.

La psicologia giuridica civile, “che valuta, attraverso consulenze tecniche di affidamento minorile nei casi di separazione e divorzio…nonché l’adozione nazionale e internazionale”.

E infine la psicologia legale,”che coordina le nozioni di psicologia esistenti all’interno del codice per contribuire al miglioramento delle leggi” (10)

L’attuale sistema normativo prevede l’impiego della consulenza psicologica in ambito civile nei casi di affidamento di minore (ad uno o entrambi i genitori o eterofamiliare), per l’idoneità genitoriale in funzione di richieste di adozione nazionale o internazionale, per limitazione della potestà genitoriale, e in molte altre situazioni che fanno riferimento sia al Tribunale Ordinario che al Tribunale per i minorenni o al Giudice Tutelare. (gli articoli di legge relativi alla nomina del CTU, del CTP, alle modalità e ai tempi delle operazioni peritali sono : art. 191-192-194-195-201 del codice di procedura civile).

Nel sistema penale lo psicologo, iscritto all’albo apposito come per l’ambito civile, diventa perito del Giudice nelle situazioni in cui occorre valutare: la capacità di intendere e di volere, la pericolosità sociale, la capacità di testimoniare, i danni psicologici conseguenti al reato, la circonvenzione di incapace, la capacità di stare in giudizio, maltrattamento e abuso di mezzi di correzione, violenza sessuale, abuso sessuale di minore; lo psicologo viene anche utilizzato negli istituti penitenziari con funzione di osservazione e studio della personalità del detenuto ma anche come sostegno per gli imputati, specialmente se minori (gli articoli di legge relativi alla nomina, alle attività e ai tempi di consegna della relazione peritale vanno dal art. 220 all’art.233 del codice di procedura penale).

Il tipo di intervento dello psicologo all’interno del sistema giudiziario non può essere quello attuato in altri contesti per esempio terapeutici, o di sostegno (vedi art. 26 del Codice Deontologico degli Psicologi e art.16 Linee Guida dello Psicologo forense).

Alcune regole che formano la struttura del “setting” terapeutico come la segretezza, la fiducia, il costituirsi di una relazione terapeutica che porta ad un transfert del paziente ed a un relativo controtransfert nel terapeuta, non possono assolutamente essere riprodotte nel rapporto, per esempio, tra CTU e cliente/utente, anzi tutto ciò che la persona comunica al CTU può essere poi riutilizzata anche “contro” di lei proprio perché la perizia è un mezzo di prova in ambito processuale, e di ciò va informata la persona di cui si chiede il consenso informato per la registrazione dei colloqui (art 10 Linee Guida).

“L’alleanza terapeutica, che è la caratteristica relazionale che domina la realtà psicoterapeutica, è incompatibile col distacco che il perito e il consulente tecnico devono mantenere nel processo” (art.16 comma 2 Linee Guida).

Lo psicologo forense, pur non rinunciando alla sua specificità e competenza professionale ma anzi utilizzando tutti gli strumenti che ha a disposizione o chiedendo la collaborazione ad altri colleghi (come può essere nel caso dei tests psicologici), deve cambiare il suo atteggiamento di fondo, passando da una funzione di sostegno (o addirittura in qualche caso di “Io sostitutivo”) ad una funzione valutativa dei soggetti che incontra e dei contesti relativi agli stessi.

I rischi più consistenti per un consulente o perito nominato dal Giudice, o per un consulente di parte è quello di uscire dai propri confini professionali, attraverso modalità invischianti e di collusione con il cliente, oppure l’appiattimento delle proprie competenze professionali sulle tesi già anticipate dal Giudice o dal PM, rinunciando alla propria autonomia scientifica e professionale (vedi artt. 2-4 delle Linee Guida)

Come ci ricorda il Dr.Paolo Capri: “i consulenti e i periti assumono sulle loro spalle enormi responsabilità, poiché entrano direttamente nei destini delle persone, contribuendo in parte alla costruzione del loro futuro”; e continua, “ un primo sostanziale passo verso una chiarificazione dei ruoli può essere l’utilizzo e l’applicazione delle Linee Guida Deontologiche dello Psicologo Forense” e della Carta di Noto che presentano una serie di linee guida relative ai comportamenti dei consulenti , che, quantomeno a livello formale li può orientare ad offrire pareri e valutazioni psicologiche” (11)

La responsabilità di consulenti e periti non è quella di diventare “paladini” della Verità, ma attenendosi al quesito “deve rispondere al Giudice e alle parti del metodo che impiega e della sua affidabilità, deve dare conto della fondatezza delle sue affermazione e deve indicare le sue fonti di convincimento” (12)

 

IL CONCETTO DI VERITA’: definizioni filosofiche, la verità nel contesto giudiziario, ancora sul ruolo dello psicologo forense.

 

Verità: parola evocativa a livello emotivo, con una plurimillenaria storia a livello filosofico, si ripropone, con tutte le sue problematiche epistemologiche e interpretative, a diversi livelli nel Diritto e in Psicologia Giuridica.

Un primo livello è inerente al “ruolo” della verità nel contesto processuale e nella prassi giuridica, cioè ai principi informatori e le regole del contesto giudiziario (per es. del processo penale); un secondo livello è in che modo la problematica della verità riguardi o meno l’attività dello psicologo forense anche in relazione ad altre aree di intervento dello stesso professionista, cioè le norme a cui deve attenersi il consulente o il perito psicologo; il terzo livello riguarda le funzioni mentali relative alla memoria, al ricordo alla percezione di fatti ed eventi, ed alla elaborazione degli stessi fenomeni intrapsichici, ma a volte anche con una componente interpersonale: cioè tutto ciò che riguarda la psicologia della testimonianza e anche tutto ciò che presiede agli studiati meccanismi di rappresentazione della realtà.

Un breve excursus filosofico per inquadrare il concetto di Verità.

Per Aristotele la verità “è affermare quello che è e negare quello che non è” e stabilisce il principio di corrispondenza tra pensiero e realtà, ripreso poi da San Tommaso d’Aquino.

Kant riformula il concetto di verità, dopo le critiche alla nozione di oggettività poste dagli idealisti, e così giunge ad “una congruenza del pensiero con i suoi principi” cioè nella assenza di contraddizione: quindi un principio di congruenza.

Per Husserl la verità delle “essenze si rivela” e ancor più Heidegger spinge avanti questa posizione sostenendo che “l’uomo ha vissuto questa esperienza autentica della verità come un disvelamento”: verità come aspetto fenomenologico ed esistenziale.

Per Heidegger c’è, inoltre, una correlazione diretta tra verità e dominio, sia per quanto riguarda la conoscenza delle leggi della natura, ma anche perché la verità è ciò che “fa essere la realtà”: “quindi la verità è produttiva, produce effetti di realtà, per cui con ragione Nietzsche può dire: volontà di verità è una parola che sta per volontà di potenza”.

Il pragmatismo porta alle estreme conseguenze il precedente assunto e sostiene “una riduzione della verità a utilità: un’idea è vera se serve praticamente”: verità come spiegazione più avvincente: “a verità come efficacia: probabilmente è sempre stato così, ma ora la cosa è esplicitamente saputa”

“Il motivo della verità come efficacia salda immediatamente la parola verità (alètheia) con la parola giustizia (dike) perché dove la parola è efficace, nel senso che fa essere o non essere, non si da verità che non sia conforme a giustizia” (13).

Accanto a queste definizioni filosofiche si possono individuare altre tipologie di verità che derivano dal tipo di paradigma scientifico e dalle pratiche professionali.

Per esempio in quanto psicologo e psicoterapeuta non sono tanto interessato alla “verità” fattuale di un evento, a meno che non riguardino reati in cui sono tenuto alla notifica all’A.G., ma alla  “verità” in quanto “vissuto psicologico” di un soggetto, in quel particolare momento della sua vita, la “sua verità”, cioè come vive e come percepisce e “sente” l’esperienza attuale; è lo stesso Musatti a ricordarcelo: “per l’analisi conta non la realtà effettiva, ma la realtà soggettiva” ((14).

Il concetto di verità sembra, quindi, variare nelle diverse epoche storiche, a seconda degli orientamenti filosofici, ma anche all’interno delle diverse aree professionali, portando a quel pluralismo di verità, a seconda dei diversi contesti, già sostenuto da Feyerabend per la filosofia della scienza.

In relazione al “ruolo” della verità nel contesto processuale, per esempio nel processo penale “nessuna prova può essere così esplicita e completa da poter essere compresa senza innescare in chi la valuta un meccanismo di tipo inferenziale nel senso che l’elemento di prova si trasforma in risultato di prova quando il giudice condivide il criterio di inferenza (deduzione, induzione, abduzione) proposto dalla parte”.

La verità diventa tale solo nel momento in cui ha le “carte in regola” per persuadere il giudice o l’uditorio. Il problema si sposta: dalla ricerca di una verità ultima, “ a quello della ricerca di verosimiglianza” (15).

D’altronde nel “giusto processo”, sancito dall’art. 111 della Costituzione, si è passati dal modello inquisitorio a quello accusatorio secondo il quale il processo non è diretto a cercare la verità ma più pragmaticamente, a decidere la causa sulla base delle prove fornite dalle parti. È caratterizzato dal gioco costante di dinamiche psicologiche interpersonali” (16).

Il concetto di verità che prevale nel contesto legale è la “teoria della corrispondenza”, secondo la quale le cose sono ritenute vere se è possibile trovare riscontri esterni obiettivi.

I fatti riferiti vengono controllati e solo se trovano conferma diventano “veri” ed anche per quanto riguarda le dichiarazioni dei testimoni, il punto essenziale è la possibilità di ottenere una verifica esterna, cioè la verità è quella che si documenta.

Un’altra caratteristica del “giusto processo”, derivante proprio dallo scambio dialettico tra le parti, è basato sull’aspetto di interpretazione e costruzione continua della realtà da parte degli “attori” in causa e non più basata sulla logica del “post hoc, ergo propter hoc”.

In base a questa logica due eventi vengono connessi in base alla loro sequenza temporale o compresenza spaziale e in base ad una impressione di causalità, ma senza nessun “rapporto d’implicazione” specifico (17); per esempio dal vedere un uomo che corre e nello stesso istante e luogo parte la sirena di un allarme e sapere poi che in quel luogo a quell’ora è avvenuto un furto, la logica “post hoc, ergo propter hoc “ può connettere questi eventi e dedurre che quell’uomo ha compiuto il reato.

“Oggi siamo consapevoli del fatto che la realtà si fa. Le realtà oggettive sono tali perché nessuno le ha ancora messe in discussione”. (18)

Quale concetto di verità orienta lo psicologo forense all’interno del sistema giudiziario?

In ambito giudiziario il perito o consulente psicologo in quanto ausiliario del giudice, produce una perizia che è “uno speciale mezzo di prova consistente in un giudizio tecnico sopra fatti per la constatazione e valutazione dei quali occorrono particolari conoscenze scientifiche e capacità pratiche”; la perizia o consulenza “non può consistere in ipotesi od opinioni o intuizioni” o basarsi su pregiudizi personali, “ma fornire concrete ragioni, convincimenti e giudizi che siano idonei a far comprendere ad altri, non esperti nella specifica materia, in modo coerentemente razionale, logico e dimostrativo il perché di quel giudizio” (19)

In sintesi i criteri a cui il perito o il CTU psicologo deve fare riferimento sono: il criterio probatorio, la perizia come mezzo di prova e quindi basata su “elementi concreti e verificabili” o non falsificabili, “e come “il giudice in difetto di prova…ha la possibilità di assolvere con la formula dell’insufficienza di prove, in modo analogo si comporterà il perito dichiarando …l’impossibilità di accertare quel che gli è stato chiesto”.

Il criterio di “neutralità” che significa saper “conciliare la capacità di comprendere – e ciò richiede pur sempre un’ampia disponibilità nel rapporto interpersonale – con la necessità, insita nel ruolo di perito, di essere neutrale”: cioè farsi coinvolgere il meno possibile dall’esaminando”.

Il criterio di oggettività e di verificabilità, o meglio di non falsificabilità, in cui le affermazioni rese sono dimostrabili e in presenza di ipotesi e interpretazioni non del tutto dimostrabili occorre dichiarare “ciò che è certo da ciò che non lo è”: con la consapevolezza che la “verità” sui meccanismi psicologici o psicopatologici non sono sempre palesi e incontrovertibili “(20)

Il concetto di verità che orienta l’attività dello psicologo forense è, quindi, quello di adesione e rigore nell’applicazione dei protocolli scientifici a cui ciascun psicologo fa riferimento. “Questa distinzione di una verità oggettiva da una verità soggettiva va costantemente mantenuta in sede psicologica: ed essa fa si che sempre si incontreranno difficoltà insormontabili quando si vogliano trasformare metodi di indagine psicologica in metodi di accertamento obbiettivo, ad esempio giudiziario”.

Questa frase emblematica, e per alcuni polemica di Cesare Musatti sembra rimettere tutto in discussione, ma in realtà mantiene aperta la problematicità del concetto di verità per lo psicologo forense, e stimola ulteriori riflessioni:

Queste parole ci ricordano anche i limiti dell’intervento dello psicologo in ambito forense e la non trasferibilità pura e semplice dei metodi e delle interpretazioni psicologiche e/o psicoanalitiche nell’ambito del diritto: la diversità delle due discipline continua a rendere interessante e fecondo il loro incontro ma anche a porre confini ben precisi.

Il problema della verità si pone in modo peculiare nella valutazione delle testimonianze.

È qui che si ripropone in tutta la sua problematicità il “problema della verità” (e delle verità).

È qui che emerge in modo più netto le contraddizioni e le ambiguità in relazione alla percezione della realtà e della sua trasmissione in termini verbali ad un terzo (giudice, magistrato o avvocato che sia, anche se sarebbe molto interessante “incrociare” le diverse rappresentazioni: quella del teste con quella dell’operatore di giustizia!).

Gli studi di psicologia della percezione, la psicologia della Gestalt, la psicologia sociale e la psicoanalisi possono dare preziose indicazioni su queste tematiche.

Anche se in maniera sommaria e riassuntiva – considerando la vastità della materia – cercherò nei prossimi capitoli di sondare alcuni campi di ricerca sia a livello sensoriale, intrapsichico e interpersonale che influenzano la percezione e la formazione delle rappresentazioni mentali e quindi dei ricordi e della trasmissione degli stessi.

 

LA TESTIMONIANZA: brevi cenni di psicologia della testimonianza

 

Per la psicologia, come osserva Cesare Musatti, “la testimonianza” costituisce la fonte principale di conoscenze.

Lo psicologo nel suo lavoro quotidiano elabora metodi per la valutazione e l’interpretazione delle testimonianze, e nello stesso tempo la testimonianza continua a costituire un fertile campo di studio per le implicazioni di processi psichici in essa coinvolti.

In campo giudiziario la testimonianza è il racconto che qualcuno fa in un modo formale, in cui una persona viene chiamata a riferire su fatti di sua conoscenza.

Con “fatto” si intende tutto ciò che va sotto l’osservazione diretta (art.499 c.p.p.).

Ma occorre subito sottolineare come “la testimonianza sia un evento eminentemente psicologico che il codice di procedura penale include nei mezzi di prova senza spiegare però che cosa sia, come si valuti, a quali meccanismi faccia riferimento” (21).

Secondo l’art. 196 del codice di procedura penale “ogni persona ha la capacità di testimoniare”: “la ratio di questa norma discende dalla insostituibilità del testimonio nell’ambito dei collaboratori di giustizia”  (22).

Questa espressione di “fiducia” da parte del legislatore viene temperata dal comma 2 dello stesso articolo in cui si profila la necessità di verificare l’idoneità fisica e mentale alla testimonianza di una certa persona in presenza di dubbi o caratteristiche, fisiche e psichiche, che potrebbero rendere inidoneo il soggetto.

L’idoneità psicofisica riguarda: “a)il livello di sviluppo di capacità percettiva e sensoriale del soggetto; b)i processi di ricordo della realtà, cioè come è stata immagazzinata;c)la capacità di critica e giudizio del testimone e capacità di rievocazione mnestica”.

Il problema dell’idoneità psicofisica e quindi della capacità di testimoniare, apre un interessante e problematico capitolo sulla personalità del testimone e su quali tipi di “patologie” (organiche, psichiatriche e psicologiche) rendono inutilizzabile o più probabilmente incerta una testimonianza, anche in relazione al tipo di situazione vissuta dal testimone.

Di fronte alla testimonianza di un minore, inoltre, occorre verificare se: abbia agito su una base di autosuggestione; in base a fantasie o esaltazione, oppure per eterosuggestione e manipolazione di terzi.

Lo studio della testimonianza ha caratterizzato fin dai suoi esordi la psicologia giuridica.

Fiore nel 1909 descrive in “Valore psicologico della testimonianza” tutta una serie di passaggi partendo dal fatto (a+x) che si rivela in genere ad un soggetto qualunque fino alla deposizione al giudice: (a+x)+y è il fatto quale si rivela per l’individuo testimone del processo, poi (a+x+y)+z è il fatto quale è registrato dal testimone; (a+x+y+z)+b è il fatto conservato dal testimone; (a+x+y+z+b)+c è il fatto ricordato ed espresso dal testimone; questo percorso è simile al “gioco del telefono”, dove dalla parola “gatto” si arriva a “pranzo” attraverso una serie di passaggi intermedi (gatto-patto-pasto-pranzo) come in certi giochi di enigmistica!.

Emerge subito come i diversi passaggi sia di registrazione, che “il fatto” riferito, portino ad uno snaturamento dello stesso, con aggiunta o modificazione di particolari.

A questo proposito il legislatore ha inventato il meccanismo dell’incidente probatorio (art. 392 c.p.p.) per salvaguardare la prova testimoniale, o di altro genere, da successive manomissioni.

Altavilla, in merito alla figura del testimone specifica termini quali “veridicità” e “sincerità”: “si può essere sincero e non veridico, il che ci porta a distinguere la falsità dall’errore del testimone”. Altavilla distingue altre due categorie: la “testimoniabilità” e la “memorabilità”: la prima è la “capacità psicologica dell’individuo a testimoniare, proprietà dell’oggetto o dell’avvenimento ad essere testimoniato e ricordato”, la seconda.

Ma come si controlla la veridicità o la sincerità di una testimonianza? Altavilla risponde “attraverso la molteplicità dei testimoni”.

Un ulteriore criterio è quello della “fedeltà”, cioè: “il fenomeno subiettivo consistente nella capacità dell’individuo ad esattamente ricordare e testimoniare” ma “il giudizio di fedeltà è estremamente difficile, perché molte volte si confonde con quello di sincerità che si attiene alle deposizioni volontariamente false”(23), infatti “la sicurezza, la scorrevolezza possono derivare da un’accorta preparazione” (24), mentre la contraddittorietà o la difficoltà a ricordare può essere causata da altre caratteristiche del soggetto: fattori emotivi, età: “la scarsa attendibilità collegata con le maggiori esitazioni nelle risposte è uno dei motivi a cui di solito…si dà poca fiducia nelle testimonianze degli anziani, che di solito impiegano più tempo a rispondere alle domande di memoria, sono più cauti sull’accuratezza delle risposte e meno convinti nei loro discorsi”.

Più spesso la ” testimonianza era attendibile solo che lo fosse il suo autore” (25)

Ma “proprio quei testimoni che sembrano presentare garanzie di attendibilità …sono i testimoni più pericolosi, dato appunto che chi li ascolta tende a prestar loro una cieca fiducia” e come riferisce Musatti dagli studi di Varendonck, “la percentuale di testimonianze complete ed esatte in tutti i loro particolari con quei soggetti che sembrerebbero avere tutti i requisiti per essere buoni testimoni, …è appena dell’uno o due per cento”.

Alcuni studiosi hanno elaborato criteri di “veridicità” del contenuto delle testimonianze: “concretezza, abbondanza di descrizioni dettagliate, originalità, coerenza e connessione del racconto, descrizione di particolari della relazione vittima-aggressore, capacità di interpretare l’evento in relazione alla situazione concreta, ecc” anche se come riporta lo stesso autore, tali criteri sono da integrare con la comunicazione non verbale del soggetto stesso, poiché da un punto di vista solo verbale potrebbero essere ben camuffate da un buon simulatore.

In termini sintetici l’attendibilità di una testimonianza è basata su due criteri: A)accuratezza: aspetti percettivi, cognitivi, riproduttivi (vedi i prossimi paragrafi); B)credibilità: aspetti motivazionali.

“Entrambe costituiscono i parametri che il giudicante adotta per valutare l’attendibilità dell’esposizione del teste: l’accuratezza si fonda sulla capacità del soggetto di ritenere e di riprodurre gli stimoli …mentre la credibilità ne riproduce più esattamente gli aspetti motivazionali” (26)

In merito alla motivazione è scontato che i soggetti interessati ad un certo giudizio siano inutilizzabili come testimoni “alla base di un tale criterio sta la considerazione che i nostri desideri …agiscono senza che noi ce ne rendiamo conto sul modo di considerare la realtà”, anche se sono proprio i soggetti interessati che da un punto di vista della accuratezza riescono a dare maggiore quantità di particolari (27).

L’art.198 del c.p.p. prescrive che “il testimone ha l’obbligo di…rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte”. Il termine “verità” posto nel codice, sembra, ad uno sguardo “ingenuo”, corrispondere alle “qualità del vero” cioè a “ciò che corrisponde alla realtà esterna.

Ma qual è la realtà di ciascuno di noi? E corrisponde a quella di tutte le altre persone?

L’indagine sulla “verità” e sulla realtà da essa rappresentata, ci conduce direttamente a studiare i meccanismi mentali che formano l’idea di realtà, la sua interpretazione e riproduzione ad un terzo, da parte di un soggetto.

 

REALTÀ E PERCEZIONE: i fattori della percezione, il processo percettivo

 

Si possono distinguere “tre gruppi di fattori della percezione: i fattori esterni di natura fisica, i fattori sensoriali di natura fisiologica ed i fattori asensoriali di natura psichica” (28).

Nei fattori esterni di natura fisica rientrano elementi quali l’illuminazione, le forme, i colori e la variazione di questi a causa di situazioni particolari può produrre una modalità diversa di percepire i fenomeni da condizioni che stanno in un range di normalità.

Nei fattori sensoriali di natura fisiologica afferiscono le proprietà degli organi di senso, o meglio dall’elaborazione attuata dal cervello.

In presenza di deficit sensoriali la percezione ne viene in qualche modo compromessa, ma anche in presenza di particolari condizioni i nostri organi di senso possono percepire “effetti” che non esistono in realtà.

In relazione alla testimonianza si può affermare che “i fattori fisici di inadeguatezza percettiva agiscono in modo costante e secondo leggi universalmente note, cosicché un testimonio “(29) è solitamente consapevole quando le condizioni fisiche non permettevano una buona percezione; ed anche i fattori sensoriali di natura fisiologica sono conosciuti dal testimonio, oppure possono comunque essere rilevati sottoponendo il testimonio a prove sperimentali, anche se questo non è sempre possibile.

“Più importanti agli effetti della valutazione delle testimonianze, in quanto più pericolosi, sono i casi di percezione inadeguata dovuti a fattori asensoriali” di natura psichica.

Ma che cosa si intende per fattori di natura psichica? E più in generale come si forma il processo di percezione?

La “percezione” può essere definita come “l’organizzazione degli eventi sensibili quale risulta al vissuto soggettivo del soggetto percipiente” (Osgood 1953).

La percezione è, quindi, un processo attivo e non passivo del soggetto, anche se la fase di osservazione di un evento sembra essere semplicemente come “il risultato immediato dei nostri organi di senso” (30).

Nella percezione di uno stimolo esterno “la situazione può essere considerata in certo modo simile a quella che si ha nella funzione somatica della assimilazione. Le varie sostanze che l’organismo assimila non vengono infatti a far parte direttamente di quell’organismo, ma si trasformano prima radicalmente in forza dell’azione esercitata su di esse dall’organismo stesso” i nuovi tessuti di cui l’organismo si arricchisce non sono costituiti dalle sostanze introdotte, ma “come le risultanti delle reazioni che intervengono fra esse e le altre sostanze che l’organismo produce” (31).

L’organismo, inoltre, svolge una funzione “selettiva”sulle sostanze introdotte.

In altre parole quando entriamo in contatto con l’ambiente non “fotografiamo” la realtà ma la “interpretiamo” dandole un significato personale. Ogni percezione non è l’unica possibile, o la più completa o la migliore ma è l’insieme di aspetti combinati della realtà esterna e del vissuto personale di quel particolare soggetto in relazione alla storia di quell’individuo, alle sue idee, ai suoi valori alle sue emozioni.

La funzione selettiva della percezione permette alla mente umana di prendere in considerazione solo quegli elementi che in un particolare momento sono utili, necessari o attirano l’interesse del soggetto in base ai pregressi orientamenti dello stesso.

Gli aspetti che caratterizzano il concetto di percezione elaborato dalla psicologia della Gestalt “sono il rifiuto di un’analisi arbitraria di fenomeni artificiosamente isolati ed astratti dal contesto del vissuto percettivo nell’intento di raggiungere una pretesa obiettività; e lo stimolo ad una più disponibile e sollecita attenzione all’esperienza soggettiva quotidiana così come essa si presenta nella sua immediatezza” (32).

L’esperienza di un soggetto assume rilevanza in relazione sia ad un contesto esterno che ad una motivazione interna: “il nostro mondo non è costituito in verità dalle cose; ma piuttosto dalle nostre prospettive sulle cose, ad es. il bosco è per il contadino un insieme di alberi, per il cacciatore una riserva di caccia, per il perseguitato un rifugio, per il viandante un posto d’ombra, per il bambino qualcosa d’immenso e misterioso nel quale potrebbe perdersi” (33)

Il concetto figura/sfondo (vedi i famosi disegni di Sander) indica l’emergere di una figura, cioè di un interesse o di una percezione su uno sfondo cioè un contesto specifico.

La psicologia della Gestalt ha introdotto e dimostrato nei suoi esperimenti l’aspetto “olistico” del vissuto esperienziale soggettivo: “le singole parti che vengono a costituire un contenuto percettivo sorgono e si specificano nella loro concreta attualità solo nella partecipazione ad un tutto relazionale che le pone in essere” (34).

Nel processo percettivo c’è un movimento dalla “parte”, colta dalla selettività della nostra mente al “tutto” come ricostruzione mentale partendo dagli elementi a disposizione, vedi gli esperimenti in cui da una figura con pochi elementi abbozzati si risale immediatamente alla sua matrice completa.

Per riassumere il processo percettivo si uniforma alle seguenti regole: a)la percezione non è una fotografia ma una “interpretazione” della realtà; b)ciò che si percepisce non è la realtà ma l’esperienza del soggetto percipiente, e ancor più importante il suo comportamento segue la percezione personale; c)occorre distinguere tra fatti e interpretazioni; d)ciascuna esperienza è “denotata e connotata” in un certo modo dal soggetto; d)la percezione è selettiva; e)la percezione di un soggetto coglie una parte; f)da una parte il soggetto ricostruisce il tutto; g)in ogni realtà esiste un primo piano ed uno sfondo (profilo dei visi e calici).

Gli aspetti attribuzionali si manifestano soprattutto nella “conferma” delle proprie percezioni, a scapito di una modalità più flessibile e più dubbiosa di rapportarsi alla realtà: “mentre è facile …accettare che altri attribuiscano differente importanza ad uno stesso messaggio, e abbiano diversi pareri e giudizi su una identica realtà , proviamo invece particolare difficoltà ad ammettere la possibilità di percezioni diverse, o ancor più divergenti, della stessa realtà” (35).

Un ulteriore elemento viene a complessificare il processo percettivo: lo stato emotivo del soggetto il quale, preso da una forte emozione può distorcere la realtà.

In relazione ad un esperimento compiuto da Musatti sui fattori percettivi e in particolare sull’assimilazione, lo stesso riporta:” se si tiene conto delle osservazioni che i soggetti riferiscono circa i loro stati d’animo durante le esperienze , si può subito osservare una certa relazione tra la tonalità emotiva generale della coscienza del soggetto e l’espressione vissuta nella figura” (36).

itAttraverso un fenomeno definito da Benussi di “inversione emotiva” (che può rientrare nella grande famiglia dei processi proiettivi) per cui “gli stati emotivi vissuti come propri dal soggetto, appariscono dal soggetto stesso come determinati dalla tonalità affettiva degli elementi percepiti” (37), l’emozione del soggetto percipiente colora la situazione percepita  – vedi anche l’ultimo paragrafo di questo scritto.

Utilizzando ancora una volta il prezioso lavoro sulla psicologia della testimonianza di Cesare Musatti, concludo con le sue parole questo paragrafo: “un aspetto reale, in senso percettivo, delle cose, non esiste. Ciò che conosciamo della realtà, attraverso i nostri organi sensoriali, ha sempre il carattere di un dato percettivo: dipende quindi dalle varie condizioni in cui si trovano i nostri organi sensoriali (non solo, ma anche la disposizione generale del soggetto a livello psicologico – nota del sottoscritto!).Tali condizioni sono, nello stesso individuo variabili: per cui neppure si può parlare di condizioni ottimali” E conclude “Dalla soggettività delle nostre prestazioni sensoriali, per cogliere un aspetto che sia insieme sensoriale ed oggettivo, non possiamo uscire”.

 

ASPETTI RELAZIONALI DELLA TESTIMONIANZA: la suggestionabilità, l’influenza sociale, le barriere comunicative.

 

Il concetto di figura/sfondo in psicologia della Gestalt definisce il movimento e l’alternarsi delle diverse “figure” che emergono su uno sfondo attivo e che sollecita gli stessi soggetti attori del processo percettivo.

In ambito giudiziario e in particolare di psicologia della testimonianza in che modo lo sfondo, il contesto, entra, o meglio influenza o addirittura collude, con il testimone e con il suo “compito”?

A parte tutti gli aspetti accennati sopra (idoneità psicofisica, condizioni della percezione rispetto ai fattori esterni, caratteristiche del processo percettivo), in che modo la relazione giudice-magistrato/testimone o avvocato/testimone determina un certo o un altro esito di testimonianza? Quali fattori (per esempio in relazione alla personalità dei soggetti coinvolti, o anche delle modalità in cui avviene la raccolta della testimonianza) possono maggiormente incidere nella relazione tra il cittadino-testimone e il sistema giustizia, anche in relazione alla “posizione “stessa del testimone e al vissuto ansioso dello stesso in merito alla convocazione del giudice.

A proposito di dinamiche relazionali in ambito giuridico, le lunghe permanenze in camera di consiglio, possono influenzare le decisioni prese in gruppo con aspetti positivi di approfondimento e scambio di idee, oppure si possono innescare dinamiche di gruppo negative, tra cui influenzabilità, suggestionabilità, o lotta per il potere (38).

Da quanto accennato si deduce l’aspetto “relazionale” del processo di testimonianza, per cui un testimone implica sempre un ascoltatore con le sue idee, le sue aspettative e il suo modo di percepire la realtà: quale aspetto di quella realtà interessa l’interlocutore? Attraverso le domande (aperte, a risposta multipla, chiuse, o addirittura suggestive) il soggetto che interroga il testimone può indirizzare, e molto spesso influenzare le risposte.

“I diversi modi in cui una domanda può essere proposta incide su precise caratteristiche della risposta, come la completezza e l’accuratezza della narrazione” (39).

In particolare le domande suggestive, cioè che “suggeriscono” la risposta possono alterare la testimonianza di un soggetto, incanalandolo ad ammissioni molto lontane dalla percezione acquisita dallo stesso soggetto.

Tipi di domande del genere suggestivo sono: le “disgiuntive parziali in cui il raggio delle possibilità di risposta viene ridotto a due ”con l’eliminazione di tutte le altre possibilità; le domande “condizionali che obbligano il soggetto a decidersi per un si o per un no”, anche qui escludendo una narrazione più libera che potrebbe non far comodo all’intervistatore  (40).

Che cosa si intende per “suggestione”?

Ecco alcune definizioni: “La suggestione va intesa come uno stimolo che ha il potenziale di indurre o elicitare una reazione”; la definizione di McDougall per cui la suggestione “è un processo di comunicazione che induce un soggetto ad accettare, in assenza di validi motivi di convincimento, quanto gli viene suggerito”. (41).

Una delle prime definizioni di suggestione è di Hippolyte Bernheim e con essa vuole dare una spiegazione ai fenomeni dell’ipnotismo: la suggestione è un atto mediante il quale un’idea è immessa nel cervello e accettata da questi.

Freud critica in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” le teorie sulla suggestione allora presenti in quanto né la definizione di Bernheim, né quelle di Le Bon e di McDougall, danno una definizione di suggestione, ma riducono fenomeni complessi come l’ipnosi, il prestigio del capo e la influenzabilità delle masse alla suggestione o alla suggestionabilità, senza dare ulteriore elementi sulla stessa.

Freud in relazione al fenomeno di suggestionabilità delle masse, collega la suggestione al concetto di libido. La libido è l’energia delle pulsioni attinenti a tutto ciò che può essere compendiato nella parola “amore”: Freud parte dall’ipotesi che le relazioni d’amore costituiscano anche l’essenza della psiche collettiva.

La massa è tenuta insieme dalla forza dell’Eros. Il singolo nella massa rinuncia alla propria individualità e si lascia suggestionare per un bisogno di armonia dello stesso soggetto.

La suggestionabilità è “la tendenza del soggetto a rispondere in un dato modo alla suggestione, per cui se la suggestione riguarda le caratteristiche dello stimolo, la suggestionabilità richiama le caratteristiche della persona che risponde allo stimolo.

Infine l’autosuggestione implica la possibilità del soggetto di generare sue proprie suggestioni alle quali cede.

La presenza cioè di un’attività confabulatoria nel pensiero del soggetto (vedi la presenza delle DG nel protocollo Rorschach); aspetti di suggestionabilità e autosuggestionabilità sono presenti in soggetti con forti tratti “ipocondriaci” e “isterici”.

In questo senso si può ipotizzare che profili di personalità più inclini ad una adesione acritica all’ambiente e con una medio-bassa autostima siano più facilmente suggestionabili.

Alcuni autori hanno individuato correlati psicologici della suggestionabilità: acquiescenza, ansia, paura del giudizio negativo, alta aspettativa di accuratezza, desiderio di apprezzamento sociale sono correlati positivamente con la suggestionabilità; intelligenza, assertività, capacità mnestica, autostima ne sono correlati negativamente.

Studi specifici hanno definito le caratteristiche della cosiddetta “suggestionabilità interrogativa”.

La suggestionabilità interrogativa si presenta in situazioni molto stressanti e con una componente di incertezza per il soggetto che per esempio deve testimoniare.

Le componenti di questo tipo di suggestionabilità, secondo il Gundjonsson Suggestibility Scale-GSS, sono: a)un contesto interattivo ristretto a chi interroga e a chi viene interrogato, chiuso ad altri interventi; b)una procedura di interrogazione finalizzata all’ottenimento di informazioni fattuali riferite in genere ad eventi passati: questo significa che i processi mnestici dell’interrogato assumono grande importanza; c)uno stimolo suggestivo già insito nelle aspettative e nelle premesse della procedura; d)l’accettazione dello stimolo, cioè delle domande, che può portare l’interrogato ad accettare il contenuto suggestivo; d)una risposta comportamentale che accerti o meno se l’interrogato ha accolto il suggerimento. Un altro elemento molto importante nella scala di suggestionabilità è la sua correlazione positiva con gli stati ansiosi del soggetto (42).

Il tema della suggestione si collega direttamente ai fenomeni di influenza sociale e di conformismo.

Secondo Asch “il fattore psicologico decisivo è la capacità dei singoli di comprendere e di reagire alle azioni e alle esperienze altrui”, con una forte spinta alla condivisione cognitiva ed emotiva, con l’effetto che il criterio sociale è superiore a quello individuale.

Nel percorso evolutivo individuale si “acquista una tendenza così forte a procedere in sintonia con gli altri che spesso insorge una reazione di ansia e di disagio quando si avvertono nel proprio comportamento elementi di non conformità”.(43)

Asch ribadisce la funzione sociale degli stessi processi conoscitivi condivisi: “…la prova, che finiamo poi per rendere un’esigenza di pensiero, ha inizio come esigenza sociale” (44)

In relazione alle diverse modalità degli individui di modificare il proprio giudizio per la pressione del gruppo, Asch, attraverso il suo famoso esperimento del confronto tra linee verticali per un soggetto sottoposto alla pressione di un piccolo gruppo, che ha portato alla definizione di “effetto Asch”, focalizza alcune caratteristiche della indipendenza e della sottomissione.

L’indipendenza del soggetto può essere: a)data dalla fiducia in sé stesso, che può essere esemplificata dalla seguente frase “questo è quello che penso non mi smuoverete di un pollice”; b)indipendenza senza fiducia, in cui il soggetto parte bene ma poi confluisce nella maggioranza: “giurerei su quello che dicono loro, perché il mio giudizio non ha migliori probabilità di essere giusto”:

La sottomissione può assumere le seguenti forme: a)deformazione di percezione; in cui il soggetto “sbaglia” in buona fede e aderisce in modo naturale alle percezioni volutamente guidate e fallaci del gruppo perché ne è convinto; b)deformazione di giudizio: “io sbaglio gli altri sono nel giusto”: questi soggetti “trasformano il loro disaccordo in un difetto personale”; c)deformazione dinamica: i soggetti che rientrano in questa fascia compiono un’operazione elaborata, secondo Asch: “sembrano meno influenzati da confusioni di tipo percettivo, cogliendo i rapporti con molta precisione e non tentando nemmeno di allinearli con quelli della maggioranza. Sopprimono semplicemente il loro giudizio…Sanno di non dare giudizi appropriati, ma non possono fare diversamente….il soggetto trasforma la contraddizione esterna in un conflitto interno…urge il bisogno di essere coerenti con sé stessi e, insieme, è vivissimo il bisogno di conformarsi al gruppo. Allora il soggetto decide, rigidamente, di non avventurarsi in nessun caso a contraddire” (45)

L’esperimento di Asch fa emergere che ben il 68% dei soggetti critici si uniforma alla opinione della maggioranza in una o più prove; i giudizi sbagliati sono nel totale il 33 % contro il 7,4% del gruppo di controllo!

Già Sherif nel 1935, in un esperimento sul movimento autocinetico con l’obiettivo di indagare la formazione delle norme individuali e di gruppo, aveva scoperto che “nella situazione individuale ogni soggetto stabilisce la sua gamma delle variazioni possibili …nell’esperimento di gruppo, individui che cominciano manifestando giudizi molto diversi finiscono poi per farli convergere intorno ad una norma comune”. (46)

I successivi studi di Crutchfield hanno portato all’individuazione di “tratti” caratteristici del “conformista”: meno intelligenza rispetto ai soggetti indipendenti, tendenza alla rigidità di pensiero e alla povertà di idee originali, presenza di sentimenti di inadeguatezza e bassa autostima, passività e suggestionabilità, presenza di un universo di valori moralistico e scarsa tolleranza dell’ambiguità.

Il problema che si presenta, anche in relazione alla psicologia della testimonianza, è quello inerente il numero dei soggetti con scarsa o nulla indipendenza. Sarebbe, forse, da ripetere l’esperimento di Asch per vedere se quella percentuale del 68% può essere oggi inferiore, ma da i riscontri che giungono da altri indicatori psicosociali non c’è troppo da illudersi!

Altri fenomeni che possono portare ad una distorsione percettiva e di testimonianza sono definiti “barriere comunicative”.

Per barriera comunicativa in psicologia sociale si intende un meccanismo o processo indipendente dalla volontà dell’individuo, che porta lo stesso ad una percezione della realtà o ad una valutazione subito successiva che distorce la comunicazione e quindi la relazione con l’altro.

Per esempio può accadere che la prima testimonianza ritenuta attendibile diventi un’opinione solida e stabile nella mente del giudice o dell’avvocato.

Attraverso il meccanismo psicologico della “prima impressione”, questa prima testimonianza darà un’impronta difficilmente contrastabile nel corso dei successivi accertamenti.

“È infatti una legge psicologica generale quella della mostra inerzia di fronte alle prime opinioni formatesi rispetto ad un dato oggetto” (47)

Il cosiddetto “effetto alone” è un ulteriore barriera comunicativa: “nella nostra eteropercezione tendiamo spesso ad esagerare l’omogeneità delle dimensioni della personalità. Se abbiamo un’impressione globalmente positiva di qualcuno, tenderemo ad estenderla anche ai tratti specifici, sopravvalutando i tratti positivi e sottovalutando quelli negativi di quella persona” e viceversa. (48)

Il “logic error”, inoltre, ci porta ad associare a caratteristiche di personalità altre caratteristiche, legate, secondo l’osservatore, al tratto osservato: per esempio una persona giudicata aggressiva facilmente sarà giudicata anche molto attiva, il che non è necessariamente così conseguente.

In pratica ogni persona tende a costruire una “teoria implicita della personalità” sull’altro, cioè “il sistema di convinzioni che viene attivato nella percezione e nella valutazione degli altri”. (49)

Un altro aspetto, qui solo accennato e da approfondire ulteriormente a livello di ricerca psicologica, sono le aspettative, le “attese” che il giudice o gli altri “attori” del procedimento giudiziario nutrono in riferimento ad una certa situazione e come poi queste aspettative vanno a “colludere” con le diverse testimonianze rese, o anche con i diversi testimoni.

In questo versante gli studi di psicologia sociale sui processi di “attribuzione”, sugli stereotipi e sui pregiudizi può orientare sia lo psicologo forense che le altre figure presenti nel sistema giudiziario.

Alcuni pregiudizi riguardano l’intuizione comune e attribuzioni derivanti dal senso comune come il presupporre più accurata la “testimonianza di un poliziotto rispetto a quella del cittadino comune” oppure “a sopravvalutare la capacità di riconoscere un volto parecchi mesi dopo averlo visto”. (50)

Conoscere gli stereotipi di un soggetto o presenti in un contesto sociale permette sia allo psicologo forense che al giudice o altro operatore giudiziario un più corretto inquadramento della testimonianza e un minor rischio di errori pregiudiziali.

 

ELABORAZIONE DEL RICORDO:la memoria (cenni), la traccia mnestica, alcuni elementi di distorsione emotiva nella testimonianza.

 

Dopo aver esaminato alcuni aspetti del processo testimoniale sia in merito alla percezione della realtà che al processo relazionale comunque innescato da una testimonianza, occorre ora soffermarsi sul ricordo e sulle modalità attraverso il quale “emerge”, e la memoria come deposito mnestico di episodi, immagini, parole.

La memoria costituisce la possibilità della costruzione dell’identità della persona: senza memoria non c’è passato ma non è possibile neppure il futuro e “l’eterno presente” sfugge a qualsiasi rappresentazione per l’individuo.

“La memoria, il ricordo è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità e nell’unità rintraccia quell’identità soggettiva e oggettiva che la ragione occidentale ha chiamato “Io” e “Mondo”. Sia l’uno che l’altro non sono dati di realtà, ma costruzioni della memoria”. (51)

i diversi modelli succedutesi nella storia della psicologia hanno cercato di “spiegare” come funziona la memoria.

In estrema sintesi: il modello associativo dove le relazioni tra le informazioni in memoria orientano il ricordo; il modello stimolo-risposta dove il rinforzo costituisce l’elemento centrale per i processi di apprendimento; il modello costruttivistico e in particolare della psicologia della Gestalt che assegna un ruolo particolare alla percezione ed alle modalità di memorizzazione delle informazioni e di recupero del ricordo; il modello pluricomponenti che sostiene che la memoria utilizza diverse modalità di registrare lo stesso item.

Infine il modello human information processing che riprende il modello dei computer e in cui si distinguono due tipi di memoria la memoria a breve termine (STM – nel computer è quella del desktop) e a lungo termine (LTM – nel computer la memoria dell’hard disk) ed è questo il modello che oggi è più seguito e che descrive il processo mnemonico attraverso sei passaggi dall’input iniziale al magazzino permanente della memoria.

Al di là dei diversi modelli e delle tipologie di memoria (semantica, episodica, di lavoro e procedurale) ciò che resta “vero” per tutti gli orientamenti psicologici è che la memoria di un soggetto ne determina il suo comportamento: ciò che è successo prima influisce sull’agire successivo.

Si instaura, così un collegamento tra eventi passati e attualità, ma non una dipendenza passiva, bensì “una dipendenza in cui l’evento passato ha lasciato dietro di sé una modificazione che attivamente influenza l’evento successivo. Una modificazione, che esercita questo tipo di influenza, è chiamata traccia”.(52)

Il percorso, e ancor prima il recupero, della traccia mnestica, rappresenta uno degli aspetti centrali nello studio della memoria e che assume estrema rilevanza nella psicologia della testimonianza.

“Nel campo della memoria la psicologia studia tre argomenti principali: l’apprendimento e la formazione delle tracce che in seguito ci mettono in grado di ricordare; che cosa accade alle tracce nel periodo di tempo intercorrente tra l’apprendimento e il ricordo; il processo del ricordo medesimo”. (53)

Il percorso della traccia mnestica passa attraverso diverse fasi; ”come le tracce si formano”, cioè la fase dell’apprendimento o della fissazione che può consistere in un “breve atto percettivo, ma può anche caratterizzarsi mediante un’attività complessa che si sviluppa con delle ripetizioni successive” – questa prima fase non è una pura ricezione passiva da parte del soggetto (vedi sopra il paragrafo sulla percezione della realtà), ma già nella fase di fissazione la traccia viene “incamerata” con delle caratteristiche particolari: “i dati vengono colti immediatamente entro totalità organizzate, strutturate e dinamiche”.

Sia il già citato concetto di percezione selettiva tende a orientare i cosiddetti “registri sensoriali” del soggetto, sia altri elementi derivanti dalla personalità del soggetto (per es. meccanismi di difesa) possono portare a fenomeni quali il guardare ma non vedere un certo fatto o al contrario ad un processo di attribuzione, di cui ho già parlato sopra.

La seconda fase è quella della ritenzione “nel corso della quale ciò che è stato memorizzato viene conservato in modo latente”: che cosa si ritiene e perché?

Ma occorre anche domandarsi quale processo interno di elaborazione avvenga nella traccia mnestica. Gli studi sull’interferenza dimostrano come attività precedenti o seguenti ad un certo apprendimento o episodio vanno a contrastare la ritenzione delle tracce mnestiche relative a quell’apprendimento o al registrare un certo episodio.

Le tracce mnestiche cercano una maggiore stabilità e si organizzano in relazione a precedenti tracce già presenti o ad apporti successivi nella memoria del soggetto.

L’organizzazione delle tracce sembra seguire un criterio di buona forma a cui tendono: “quando la forma appresa non si presenta in forma di bontà strutturale, la corrispondente traccia mnestica evolverà per forza autonoma verso modelli più regolari, semplici, simmetrici”.

Il flusso della nuova attività percettiva tende ad assimilarsi all’organizzazione delle tracce già presenti e familiari al soggetto stesso, ciò “ chiama in causa il ruolo che l’esperienza, anteriormente acquisita, può avere nel rendimento mnestico”. (54)

In pratica ciascun individuo deposita, ritiene e organizza le tracce mnestiche secondo percorsi individuali derivati da precedenti esperienze e ciò porta alla ripetizioni di “script”, copioni che orientano, da un punto di vista cognitivo, e tranquillizzano, da un punto di vista emotivo: il soggetto organizza i dati secondo schemi già acquisiti.

Un’altra problematica relativa all’elaborazione del ricordo nella fase di ritenzione è quella relativa alla decadenza del materiale mnestico e all’oblio e che tenta di rispondere alla domanda perché si dimentica e che cosa si dimentica.

Già nel 1880 Ebbinghaus aveva definito alcune leggi sull’oblio: “il ricordo si deteriora con il tempo; il corso dell’oblio è assai rapido nei primi stadi; la curva dell’oblio si può esprimere con una formula matematica; l’oblio diviene meno rapido se se si aumenta il numero delle ripetizioni”.

Un fenomeno collegato all’oblio di un episodio di cui siamo stati testimoni è la “disgregazione mnestica”.

“Noi possiamo ricordare il significato di un fatto senza essere in grado di rappresentarci i singoli elementi che ne stavano alla base, e che noi abbiamo percepiti durante l’osservazione del fatto”. Nella nostra memoria “l’architettura” del fatto e i suoi elementi specifici sono in qualche modo indipendenti: “un tale processo di disgregazione mnestica ha una sua funzione economica e biologicamente utile. Noi sappiamo qualche cosa solo in quanto dimentichiamo la maggior parte delle cose; l’oblio è una condizione indispensabile della memoria”. (55)

In relazione alla psicologia della testimonianza si può quantificare la e classificare le varie testimonianze (certamente in ambito sperimentale) secondo dei rapporti tra V= elementi esatti, F= elementi errati, T= elementi totali. Allora V+F/T “cioè il rapporto tra il numero degli elementi riferiti (veri o falsi) e il numero totale degli elementi del fatto esprimerà la estensione della testimonianza”;  V/T = estensione della conoscenza del fatto; infine V/V+F “ossia il rapporto tra il numero degli elementi esatti e ed il numero totale degli elementi riferiti, esprimerà il grado di fedeltà della testimonianza. (56)

La ritenzione non può essere studiata direttamente ma solo attraverso il suo effetto e cioè il ricordo che rappresenta la terza fase del percorso della traccia mnestica.

Il ricordo può assumere diverse forme: rievocazione, richiamo, riconoscimento e ricostruzione.

Per quanto riguarda la rievocazione da alcuni esperimenti è stato dimostrato come la libera rievocazione non segua necessariamente l’apprendimento precedente (vedi esperimento di Lewin sulla coppia di parole).

La trasformazione o il blocco delle rievocazioni rappresenta un punto centrale della teoria psicoanalitica, per cui eventi ansiogeni possono essere “rimossi” dal soggetto e magari riaffiorare sotto condizioni particolari (ipnosi, trattamento psicoanalitico o psicoterapeutico), o in situazioni particolari (traumi fisici e/o psicologici).

Freud in “Psicopatologia della vita quotidiana” ha dettagliatamente studiato i processi psichici che presiedono alle dimenticanze ed errori.

Ciò che è dimenticato o deformato è in collegamento, attraverso vie associative, “con un contenuto di pensiero inconscio, dal quale si diparte l’effetto che si manifesta come dimenticanza”.

La dimenticanza di un nome accompagnata da falso ricordo segue, per Freud, le seguenti condizioni: “1)una certa disposizione a dimenticarlo; 2)un processo di rimozione verificatosi poco tempo prima; 3)la possibilità di stabilire un’associazione esteriore tra il nome in questione e l’elemento represso”.

Lo studio delle “condotte mnestiche” può riguardare il ricordo, sia attraverso la “riproduzione” di uno stimolo (ad es. una poesia), che la “narrazione” di un evento o di una storia.

“Una seconda categoria concerne le condotte di “riconoscimento”, che implica l’identificazione percettivo-mnestica di un oggetto precedentemente memorizzato, ma presente di fatto nel campo percettivo”.

Infine una terza categoria “comprende le condotte di riapprendimento”, cioè tramite esercizi, il recupero del materiale mnestico ritenuto dal soggetto.

Questi tre aspetti sono tra loro strettamente interrelati, ma è soprattutto la categoria del “riconoscimento” quella che riguarda in modo peculiare la psicologia della testimonianza.

Le distorsioni della memoria possono essere classificate, seguendo lo schema della Prof.ssa De Cataldo, in quattro gruppi: fattori sottratti al controllo esterno durante la fase dell’acquisizione o percezione; fattori risultanti da influenze esterne ma ancora relative al processi psicologici interni del soggetto durante la fase dell’immagazzinamento o ritenzione; fattori esterni riferibili all’interazione con i protagonisti del processo nella fase di rievocazione o del riconoscimento; fattori di distorsione inerenti modalità di comunicazione del testimone e altre recenti ricerche sul tema.

Tra le varie distorsioni della memoria, ho scelto di soffermarmi – senza pensare di essere esaustivo – sul ruolo delle emozioni e degli stati emotivi in ambito di psicologia della testimonianza.

Parlare di emozioni è sicuramente molto complesso e implicherebbe prendere in esame sia le varie teorie che hanno cercato di “incasellare” il pathos umano, sia su aspetti neurofisiologici di funzionamento del cervello prima e della mente poi.

Ciò che è certo è l’impossibilità di “sfuggire” alle emozioni e ai sentimenti in qualsiasi contesto e quindi la loro universalità, certamente con modalità di espressione diverse.

Nonostante la vastità, e quindi la dispersività del tema che mi porterebbe sicuramente ad uscire dall’argomento della distorsione della traccia mnestica, voglio comunque citare alcuni aspetti che definiscono un’emozione.

Esistono emozioni primarie (gioia, rabbia, paura, disgusto, tristezza e sorpresa), emozioni sociali (per es. imbarazzo, gelosia, ecc), emozioni di fondo (benessere, malessere, calma, tensione).

Le emozioni sembrano seguire i seguenti assunti: 1)sono complicate risposte chimiche e neuronali; 2)sono processi determinati biologicamente in modo innato stabiliti attraverso una lunga storia evolutiva; 3)si innescano automaticamente senza una decisione conscia; 4)usano il corpo come “teatro”.

Per ciò che riguarda la traccia mnestica e il ricordo in che modo l’emozione favorisce, distorce o blocca la rievocazione o il riconoscimento?

L’effetto Zeigarnik dimostrò che la capacità di rievocazione è “condizionata dalla propensione individuale ed è quindi influenzata dalle emozioni che lo stimolo suscita in noi”. Ulteriori esperimenti stabilirono una correlazione positiva tra capacità di rievocazione e concordanza emotiva tra il momento in cui avviene il fatto e il momento della rievocazione: la medesima tonalità emotiva permette una migliore rievocazione.

Più in generale e “contrariamente a quanto si pensa, i ricordi spiacevoli sono maggiormente soggetti ad essere dimenticati che non i ricordi relativi a situazioni piacevoli” un certo ottimismo mnestico tende a a ricordare più effetti positivi di quelli negativi (57).

Secondo Musatti tale ottimismo mnestico si può ricollegare alla capacità della mente di “dimenticare” il dolore fisico in modo da autotutelarsi dallo stesso, ma nello stesso tempo tale orientamento ottimistico può portare a lacune e distorsioni sul passato.

Anche in questo caso si può definire con le categorie psicoanalitiche la “necessità” del soggetto di “difendersi” da ricordi particolarmente negativi ed ansiogeni.

Ma più probabilmente accade che nel ricordo di un evento traumatico, il “rimosso”, che William James chiama cicatrice della memoria, sia in parte deformato, oppure perso nella memoria, per po tornare a “esercitare una sua influenza e a ricomparire fastidiosamente in maniera inconsapevole o implicita”.

Il ricordo del soggetto che è stato “esposto” a situazioni traumatiche (guerra, prigionia in campi di concentramento, ecc.) “ha una storia di rapporti dolorosi con l’individuo e diventa critica una serie di operazioni che la mente compie sulla traccia mnestica in momenti ripetuti, successivi all’episodio. Queste operazioni talora riescono a bloccare le vie d’accesso alla coscienza del ricordo, altre volte lo espongono a svariate forme di rielaborazione e progressiva trasformazione” (58).

In modo più generale si può affermare che “un elevato livello di stress, come quello, ad esempio, che sperimenta il soggetto che ha un’arma puntata contro, non solo non favorisce (come comunemente si crede) l’osservazione, ma determina importanti disturbi nel processo di percezione e memorizzazione dell’evento”, e ancora “ la probabilità che un dettaglio marginale nell’economia dell’evento, ma importante nella fase processuale, possa essere ricordato con esattezza, si abbassa quando l’evento ha scatenato una forte risposta emotiva e stressante nel soggetto” (59).

 

Per concludere, si riportano alcuni elementi di una ricerca effettuata nel 1989 da Kassin e collaboratori e ripetuta nel 2000, in cui si chiedeva a 197 psicologi esperti di deposizioni di testimoni oculari statunitensi ed europei di dare una valutazione su trenta affermazioni relative all’attendibilità dei testimoni oculari:

  • la presenza di un’arma riduce la capacità del testimone oculare di riconoscere attendibilmente il volto dell’autore del reato;
  • le istruzioni della polizia possono influire sulla disponibilità del testimone oculare a compiere un riconoscimento;
  • meno il testimone oculare ha avuto tempo per osservare l’evento, peggio lo ricorderà;
  • la sicurezza del testimone oculare non è buon predittore dell’esattezza del suo riconoscimento;
  • a volte i testimoni oculari riconoscono il colpevole in una persona che hanno visto in un’altra situazione o in un altro contesto;
  • la deposizione del testimone oculare in relazione ad un evento può essere influenzata dal modo in cui gli vengono formulate le domande;
  • la deposizione del testimone oculare in relazione ad un evento spesso riflette non soltanto ciò che il testimone ha effettivamente visto, ma anche le informazioni che ha ottenuto successivamente;
  • la velocità dell’oblio di un evento è maggiore subito dopo l’evento e poi si stabilizza nel corso del tempo;
  • l’ipnosi rende le persone più esposte agli effetti suggestivi di domande suggestive e depistanti;
  • la percezione e il ricordo di un evento da parte di u testimone oculare possono essere influenzati dai suoi atteggiamenti e dalle sue aspettative.

 

NOTE

 

1)Haward, 1981, citato in G. Gullotta, Trattato di Psicologia Giudiziaria, Giuffrè Ed., Milano, 1987;

2)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, Cedam, Padova, 2000;

3)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op.cit;

4)Cesa-Bianchi in Trattato di Psicologia Giudiziaria, op.cit.;

5)Gulotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria., op.cit.;

6)Gulotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria., op.cit;

7)De Cataldo L., Esame e controesame nel processo penale, op. cit:

8)Capri P., “Introduzione alla Psicologia Giuridicain Quaderni della Smorrl n° 6 Gen-Mar 2001, Roma;

9)Capri P., Introduzione alla Psicologia Giuridica”, op.cit;

10)Capri P., Introduzione alla Psicologia Giuridica”, op.cit;

11)Capri P., “Ruoli e funzioni dello psicologo in ambito peritale. Collaborazioni e contaminazioni”, in AIPG Newsletter n° 11, ott.- dic 2001, Roma;

12)de Cataldo Neuburger L.. Quale verità?” in AIPG Newsletter n° 11, ott.- dic.2001, Roma;

13)Galimberti U., Psiche e technè, Feltrinelli, Milano, 1999;

14)Musatti  C., Elementi di psicologia della testimonianza, Liviana editrice, Padova,1989;

15)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op.cit;

16)de Cataldo Neuburger L., Quale verità?”, op.cit.;

17)Petter G., “il sole nero”, in Psicologia contemporanea, mag-giu 1999, n° 153, Giunti, Firenze;

18)de Cataldo Neuburger L., Quale verità?”, op.cit.;

19)Ponti G.L., “La perizia psichiatrica e psicologica nel quadro della legge penalein Trattato di Psicologia Giudiziaria, op. cit.;

20)Ponti G.L., “La perizia psichiatrica e psicologica nel quadro della legge penalein Trattato di Psicologia Giudiziaria, op. cit.;

21)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op.cit;

22)Gullotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria, op.cit.;

23)Altavilla E., Psicologia giudiziaria, Utet, Torino, 1948;

24)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

25)Gullotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria, op.cit.;

26)Gullotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria, op.cit.;

27)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

28)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

29)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

30)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

31)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

32)Cesa Bianchi M., Beretta A., Luccio R., La percezione, Angeli, Milano, !988;

33)Franta H.,.Salonia G, Comunicazione interpersonale, Las, Roma, 1981;

34)Cesa Bianchi M., Beretta A., Luccio R., La percezione, op. cit.;

35)Franta H.,.Salonia G, Comunicazione interpersonale, op. cit.;

36)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

37)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

38)Capri P., Introduzione alla Psicologia Giuridica”, op.cit;

39)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op. cit

40)Gorra E., Rampolli I., Come nell’interrogatorio la domanda può influenzare la risposta in Gulotta G.Trattato di Psicologia Giudiziaria, op. cit.

41)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op. cit

42)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op. cit

43)Asch Salomon. a., Psicologia sociale, Sei, Torino, 1989;

44)Asch Salomon. a., Psicologia sociale, op. cit.;

45)De Negri Trentin Rosanna, Esperimenti di psicologia di gruppo, Martello-Giunti, Milano, 1977;

46)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

47)Franta H.,.Salonia G, Comunicazione interpersonale, op. cit.;

48)Franta H.,.Salonia G, Comunicazione interpersonale, op. cit.;

49)Gullotta G., Trattato di Psicologia Giudiziaria, op.cit.;

50)Galimberti U., Psiche e technè, op. cit.

51)Canestrari R., Psicologia generale, Clueb, Bologna, 1990;

52)Koeheler W., Psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano, 1961;

53)Canestrari R., Psicologia generale, op. cit.;

54)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

55)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

56)Canestrari R., Psicologia generale, op. cit.;

57)Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, op. cit.;

58)Cornoldi C., De Belli R., Le cicatrici della memoria in “Psicologia contemporanea”, n° 169, gen-feb 2002, Giunti, Firenze;

59)de Cataldo Neuburger L., Esame e controesame nel processo penale, op. cit

 

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